DITA



 DITA

Sempre, sempre con me sarà il ricordo. Un tatuaggio che si cancellerà con la fine dei miei giorni. Eppure sento che non è così: talmente intensa è la vita, a volte, che non può lasciare che ci si dimentichi di lei. Qualcosa della mia memoria rimarrà nell’universo. Come il mare che accoglie i fiumi e mescola frammenti di terre lontane, così deve esistere una dimensione dove si uniscono tutti i ricordi belli e rimarranno sempre lì, a riempire i cuori. Come il sole che ci scalda, come la pioggia che ci disseta, anche se non chiediamo loro di farlo, quell’entità magica fatta di emozioni nutre le nostre anime. Discreta e umile ci dà il senso della vita, ci fa vedere nei colori di un tramonto il valore dei sogni.

La prima volta che la vidi stava seduta sul suo sgabello. Rubavo la sua immagine  da una finestra. La melodia del suo strumento mi aveva rapito e accompagnato a lei. Quel pomeriggio passavo da lì, ma non sapevo che avrei scoperto l’amore. La collina era completamente verde e il vialetto che portava alla scuola solcava un manto di minuscole margherite. I peschi, fiorendo, promettevano dolci frutti. Un gatto dormiva all’ombra di una siepe e i ragazzi  riempivano l’aria di allegre grida. Ma lei era in quella stanza e solitaria studiava un modo per esprimere la sua natura. Le sue dita sfioravano i tasti e il pianoforte rispondeva in musica la sua gratitudine. Sotto le sue mani, maestosamente, sembrava prendere vita e come ogni essere che vibra, le sue note sussurravano la forza della propria esistenza. Lui viveva grazie a lei e l’aiutava a trasformare in suoni le sue emozioni. Come può un oggetto sembrare vivo? Eppure le sue dita riuscivano a stimolare, come carezze, la voglia di vivere. Simbiotici tanto da sembrare una sola cosa. Non avrei mai creduto di notare tutte questo in solo istante. Ma credo che lei fosse la poesia che fa nascere i sensi perché proprio questi mi urlavano nel petto, all’unisono, il sapore di ciò che vedevo e udivo. Io stesso mi sorpresi di provare tanta grazia ma era lei ad averne i meriti. Nel suo vestitino semplice, arrotolato sulle morbide cosce, con  i capelli lunghi e lisci che si muovevano appena, mossi da un soffio che non riusciva a smettere di girarle intorno. I suoi piedi nudi appoggiati ai pedali mi suggerivano la sua voglia di toccarlo.  Si vedeva che ogni centimetro della sua pelle bramava dalla voglia di trasmettergli  tutta la melodia che sentiva dentro. Sentivo forte anch’io la sua voglia di farlo sussultare di piacere e si capiva che se avesse potuto avrebbe cercato di farlo suonare con tutto il suo corpo. Se avesse potuto si sarebbe spogliata e completamente nuda, si sarebbe sdraiata sui tasti.   Nel gioco amoroso gli avrebbe parlato di sé e come un orgasmo la melodia sarebbe uscita dalla sua coda. Ma ogni gioco ha le sue regole e le sue dita bastavano a farmi vedere l’amore che riempiva quella stanza. Avrei voluto essere al posto del nero e lucido pianoforte e provavo anche un poco di gelosia perché sapevo che non mi avrebbe mai potuto amare in quel modo. Loro erano le due metà del sogno di una Dea e io ero come un  poeta che soffre al cospetto della bellezza, perché sa che non ne farà mai parte ma la può solo raccontare.

Stavo in disparte ad ammirare, e potevo vedere il suo profilo. I delicati lineamenti  mi svelavano la metà dell’estasi che provava. I suoi occhi non si erano ancora schiusi e il capo ondeggiava seguendo la linea sinuosa delle note. Stavo per andare via, lontano dalla cosa più bella che avessi mai visto. Volevo solo portare via il ricordo e farlo diventare indelebile ma in quell’istante la brezza che attraversava le finestre riuscì a muoverne una e la fece urtare contro il muro. Il sordo tonfo fece trasalire quella creatura che si girò verso di me. Mi sentii colpevole di aver violato il loro idillio ma le sue dita continuarono a percorrere i tasti che improvvisamente mi sembrarono i denti di un sorriso. I nostri sguardi si unirono e lei capì quanto forte e profonda fosse la mia attenzione. Mi sorrise anche lei e non smise più di guardarmi. La melodia continuava ad uscire da quella meravigliosa coda e in quel momento capii che forse mi ero sbagliato. Non mi sembrava più irragiungibile come poco prima. Sembrava felice di vedermi come se mi stesse aspettando. Come se stesse aspettando qualcuno per cui suonare, qualcuno che avrebbe gioito davvero di quel dono. E io non potevo fare altro che desiderare ciò che mi apparteneva già perché ora le sue dita si muovevano per me. Ne ero sicuro. Le sentivo quasi sul mio corpo come se ne esplorassero  la forza. Erano avide di sentire la carne di un uomo e la mia pelle non desiderava altro che farsi toccare. I pochi metri che ci separavano avevano perso il loro valore e la sentivo vicina con tutta la sua esile forza. La musica continuava ad accompagnare il nostro incontro. Mi sentivo impotente, avrei voluto darle anch’io un’emozione, ma potevo solo lasciarmi avvolgere da quella meraviglia. Il pianoforte non mi pareva più un rivale ma un amico che mi parlava di lei. Io ero l’uomo che la desiderava, nella magia di un incontro che non dava spazio alle domande. Le sue mani, la sua pelle, la sua bocca e il suo dolce sguardo riempirono da quell’istante tutta la mia vita. Le sue dita, su quei tasti, mi raccontarono tutto di lei. Ed io, per la prima volta, mi innamorai. La sua musica mi ringraziava di aver saputo cogliere la sua fragile anima e capii che la mia passiva estasi era per lei l’emozione che avrei voluto darle.                                                                                                                                                                          Davide Ragozzini

 

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