IL COMPLEANNO

 


IL COMPLEANNO

 

Nel buio mi sveglia un suono. Lo riconosco, è il mio cellulare. Come può essere, sono sicuro di averlo spento, lo spengo sempre prima di dormire. Squilla ancora, ho ancora gli occhi chiusi, lo cerco a tastoni con la mano, me lo porto davanti alla faccia e apro un occhio per vedere chi è. Il numero è nascosto. Rispondo. Al di là, mi parla una voce di un uomo, è una voce strana, non saprei spiegare, lontana, anche se la sento perfettamente. Mi dice che devo andare in un posto, subito. Non mi viene in mente nessuna domanda, gli dico solo che mi ci vorrà un po’ di tempo. Dice che è d’accordo e inizia a spiegarmi dove devo andare. Mi dice il nome di una strada, è vicino a casa mia. La devo percorrere fino alla rotonda, in quel punto devo girare a destra fino al ponte della ferrovia, devo  passarci sotto e continuare diritto fino al dosso, subito dopo c’è una stradina a sinistra devo entrarci,  andare diritto e sono arrivato. Bene, gli dico, è vicino a casa mia, vengo prima che posso.  

Mi alzo dal letto, mi vesto ed esco. In auto mi sento solo, accendo la radio ma mi sento ancora più solo. Percorro la strada ricordando le indicazioni, non mi impegno molto, non serve, la zona la conosco benissimo, quindi vado avanti un po’ meccanicamente, solo l’ultima stradina a sinistra non ho ben presente quale sia ma mi basta sapere che è subito dopo il dosso. Ci arrivo sopra, passo di là e la vedo, non ci avevo mai fatto caso. Giro a sinistra, è stretta e diritta, vado avanti. A senso avrei detto che si sarebbe fermata poco dopo, invece lentamente si allarga e ai lati ci sono delle case e dei palazzi. Man mano che vado avanti mi ritrovo in un quartiere con strade, palazzi e negozi che non conosco affatto. Sono a cinque minuti da casa mia, nella città dove sono nato ma quel posto io non lo conosco. In più ora c’è il Sole, diritto davanti a me, ora c’è il Sole. Questo posto è molto strano, non c’è nessuno in giro, non ci sono auto né in circolazione né parcheggiate, tutto quanto sembra essere ricoperto da una sottile e finissima polverina azzurra che rende tutto perfetto. Capisco di essere arrivato, mi accosto al marciapiede e mi fermo, spengo l’auto. Mi guardo un po’ intorno poi scendo. Faccio due passi. Le mie scarpe, camminando, non fanno nessun rumore. Quella polverina azzurra ovatta il selciato, ad ogni passo ne sollevo piccole quantità in minuscole nuvolette. Ho voglia di fumare, prendo una sigaretta e cerco l’accendino. Non funziona. Quindi mi guardo intorno un’altra volta ma non vedo niente di aperto. Faccio qualche passo verso l’incrocio per vedere la strada perpendicolare. Fortuna forse ma in quella strada, lontano qualche decina di metri, scorgo l’insegna  gialla di un tabacchino che spicca sul marciapiede. Dunque mi ci avvicino, entro. Dietro al bancone c’è un uomo girato di spalle  intento a riordinare cose nello scaffale. Mi sente entrare e si volta. E’ incredibilmente vecchio, mi sorride molto gentilmente, non mi dà il tempo di parlare che la sua mano tremolante mi porge un accendino. Lo guardo stupito, lo osservo, è leggermente ricurvo su se stesso ma la sua fibra è ancora forte. Mi incoraggia con un lieve movimento della mano a prendere l’accendino. Lo afferro e lo guardo. E’ giallo con disegnato sopra una torta con delle candeline. Gli chiedo quanto devo pagare. Mi sorride e mi dice che quando si ha bisogno di qualcosa e proprio in quel momento arriva, è una cosa che non ha prezzo. Lo ringrazio ed esco. Ripercorro la strada al contrario. Improvvisamente sento una sete fortissima. Continuo a camminare e al mio fianco vedo la porta gialla di un bar che poco prima non avevo visto. Dentro c’è molta luce, anche se fuori c’è il sole. Entro. Una bambina sta dietro al banco e sta lavando dei bicchieri. É bellissima. Appena mi vede entrare si volta, prende un bicchiere e lo appoggia sul bancone davanti a me. E’ una spremuta di limone, proprio quello di cui avevo bisogno. Mentre mi disseto mi guardo intorno. Il bar è vuoto. Ci sono dei tavolini che sopra hanno il segno di una festa finita, bottiglie vuote, altre mezze piene, tovagliolini sporchi e accartocciati, piattini di plastica gialli dentro i quali ci sono tracce di una torta. In terra, tra le seggiole disordinate e i tavolini, è la stessa cosa, tovagliolini, bottiglie, piattini e pezzi di torta. Alle pareti e al soffitto sono appesi festoni, uno augura buon compleanno a qualcuno, una bambina forse. Finisco la mia spremuta e appoggio il bicchiere sul banco. La ragazzina mi sorride e mi dice che è stata una bella festa, mi dice anche che è un peccato che io non c’ero. Le sorrido anch’io però sono un po’ triste e le chiedo quanto devo pagare, mi dice che quando si ha bisogno di qualcosa e proprio in quel momento arriva, è una cosa che non ha prezzo. La ringrazio e la saluto ma non so perché sono sempre più triste. Esco. Fuori, davanti a me, c’è sempre il Sole. Cammino sul marciapiede verso la mia auto. La polverina azzurra, ad ogni mio passo, si solleva in minuscole nuvolette. Arrivo all’incrocio e vedo la mia auto. Mi accorgo che è gialla e mi stupisco di non averci mai fatto caso. Continuo a camminare verso di essa e man mano che mi avvicino intravedo qualcuno seduto dentro, dal lato del passeggero. Apro la porta e mi siedo al mio posto. L’uomo che sta al mio fianco guarda diritto davanti a sé. Io aspetto. Poi si gira verso di me e mi dice che oggi è il compleanno di mia figlia. Mi giro verso di lui e gli rispondo che io non ho figli. Mi guarda. Ha l’aria serena come di chi sa aspettare l’arrivo di qualcosa di buono. In quel momento la sento arrivare. Arriva da dentro di me come la lava spinta dalla forza della Terra. E’ la tristezza più profonda che abbia mai provato e ancora più triste è sapere improvvisamente che è sempre stata laggiù, dentro di me. Non riesco a trattenermi e scoppio a piangere. Quell’uomo mi sorregge e capisco che senza di lui non ci sarei mai riuscito, da solo, a tirarla fuori. Piango. Piango fuori tutto. Piango fuori tutto il nulla che mi ha sempre riempito. Piango fino a quando il Sole, girando tra le case, arriva davanti a me. Lentamente singhiozzando smetto. Smetto di piangere. Respiro la luce. Quell’uomo parla ancora e mi dice di andare. Mi dice di ritornare a casa. Io lo ringrazio come fosse il padre che mi ha dato la vita. Poco dopo sono sul dosso, poi passo sotto il ponte della ferrovia, arrivo alla rotonda e giro a sinistra.  Percorro quella strada fino a casa nostra. Tutto ciò che vedo, ormai, mi è familiare. Apro la porta ed entro in casa. Dentro c’è solo il silenzio ma non è più tristezza, è solo riposo. Apro la sua porta e la guardo dormire. Vedo i suoi sogni, per la prima volta. Scopro che una vita non vive se ha la morte nel cuore. Mi siedo sul suo lettino e le accarezzo i capelli. Lei dorme ancora e le dico che se sono stato lontano è solo perché avevo paura. Avevo paura di amare. Mi avvicino al suo orecchio e dalla profondità dentro di me, dalla quale è uscita tutta quella tristezza, finalmente sento liberarsi qualcosa e le dico

        Buon compleanno amore mio. –

In quel momento, una mano mi si appoggia su una spalla, mi giro e vedo la madre di mia figlia. In mano ha una torta al limone, la sua preferita. Sopra ci sono sette candeline e mi chiede

        Perché non le accendi tu?-

Prendo dalla tasca l’accendino giallo con disegnato sopra una torta e le accendo e lei mi dice ancora

        Quando si ha bisogno di qualcosa e proprio in quel momento arriva, è una cosa che non ha prezzo.-

Prima di svegliare mia figlia, ripenso alla ragazzina del bar e a quello che mi ha detto. Alla festa di mia figlia, ora ci sono. Ora ci sono.

 

Davide Ragozzini



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